L’ultima volta che ho cambiato lavoro è stata sette anni fa. Lavoravo in uno studio di architettura piccolo ma abbastanza attivo e avevo appena finito di occuparmi del cantiere di ristrutturazione con recupero sottotetto di un palazzo di primo Novecento in centro a Milano, vicino alla basilica di Santa Maria delle Grazie e affacciato su quella che adesso è nota come la Vigna di Leonardo. Il progetto di questa ristrutturazione – fra progetto preliminare, definitivo, DIA, Soprintendenza, sopraggiunta variante e di nuovo DIA e Soprintendenza, e infine esecutivo e cantiere – mi aveva occupata a momenti alterni per tutti i quattro anni in cui sono rimasta in questo studio e la fine dei lavori mi sembrava il giusto momento per cambiare aria.
Da uno studio di architettura volevo passare a qualcosa di diverso – infatti sono poi approdata alla società di ingegneria per la quale lavoro ora – ma prima sentivo il bisogno di un periodo sabbatico, durante il quale oggi non ricordo assolutamente che cosa ho fatto, se non starmene in vacanza (era estate) fra la Liguria e la Svezia. Tre mesi di vacanza come a scuola, poi un po’ di lavoro al portfolio e due mesi di invio curriculum (più di cento) e di colloqui (credo 4 o 5). Era il 2010: oggi probabilmente le cose andrebbero diversamente.
Perché sto scrivendo questo? L’inizio di un nuovo anno mi sembra un momento buono per fare alcune considerazioni sul punto al quale si è arrivati nel proprio lavoro ed eventualmente sui prossimi passi da seguire.
E’ da molto tempo ormai che dico in giro di non essere del tutto soddisfatta della mia vita professionale (in fondo è la ragione per la quale ho iniziato a scrivere questo blog) e da altrettanto tempo però non cambio strada perché non ho la minima idea di quello che vorrei fare “next”. Quindi oggi mi fermo a spiegare a me stessa che cos’è che faccio esattamente quando dico che sto lavorando e – vostro malgrado – ve lo racconto pure.
Sì, perché di recente mi è stato chiesto più volte in che cosa consista – nella pratica – il mio lavoro di architetta, e mi sono accorta che non è né automatico per gli altri immaginarselo né facile per me spiegarlo. Cioè, la mamma, gli amici, i conoscenti, mica lo sanno davvero quello che fai quando dici che sei un architetto. Primo, perché è un lavoro complesso e non tutti gli architetti fanno le stesse cose. Secondo, perché l’immaginario comune è abbastanza fuorviato da tutti quei programmi televisivi (di solito americani) sulla ristrutturazione di case. E di certo ci sono altri mille motivi.
A me in generale succede questo.
“Che lavoro fai?”.
“Sono un’architetta”.
CASO A – “Che bello!!!”. Nella sua mente, l’interlocutore immagina una professione leggera, creativa, ricca di brio.
CASO B – “Ma di interni?”. Essendo io una donna, l’interlocutore è portato sempre in prima battuta ad immaginarmi fra tessuti, tende e complementi d’arredo.
A questo punto in generale io attacco con uno dei 5 principi dell’archinoia oppure racconto qualche bega economica-fiscale, ma oggi però no.
Iniziamo? Premetto che sono un’architetta libera professionista e collaboro con una società di ingegneria che si occupa di project and construction management. Non scendo nel dettaglio del tipo di collaborazione perché non è di questo che voglio parlare ora.
“Ma qual è la tua giornata tipo?”. Ecco, non credo di avere una giornata tipo perché tutto dipende dalla tipologia di commessa che sto seguendo in un determinato momento: una gara d’appalto? Lo sviluppo esecutivo di un progetto? La direzione lavori in un cantiere?
Per semplificare qui mi riferirò al progetto di cui mi sono occupata in questi ultimi mesi (leggi “anni”, perché si tratta sempre di progetti che occupano un tempo lunghissimo): la realizzazione di un nuovo polo produttivo in provincia di Milano, con due edifici principali, alcuni volumi tecnici, le relative sistemazioni esterne (strade, marciapiedi, parcheggi, aree verdi) e le urbanizzazioni (in questo caso una nuova strada pubblica e la fognatura), per un importo totale dei lavori pari a 11 milioni di euro.
Cosa eccezionale di questa commessa è che la seguiamo anche come General Contractor, quindi siamo anche l’impresa che costruisce.
Che ruolo ho in questo progetto? Mi dicono che sono responsabile della progettazione civile, insieme ad un altro/altra architetto/a che nel corso della vita di questo progetto non è rimasta sempre la stessa persona (salvo fortunatamente negli ultimi mesi), cosa che ha causato qualche oggettiva difficoltà. C’è poi un responsabile della progettazione strutturale e una responsabile dell’ufficio acquisti: tutti rispondiamo ad un project manager che in questo caso – diversamente da altri – ha un ruolo molto attivo. Gli impiantisti – questi sconosciuti – sono consulenti esterni ed evidentemente pensano di essere pagati troppo poco (e probabilmente è vero) perché non gira una tavola neanche a pagarla oro. E mi chiedo infatti come siamo arrivati in questo modo a realizzare un edificio che funzioni, se non basandoci su un nuovo tipo di progettazione telepatica che il BIM 7D ce spiccia casa.
Per questo progetto è stato firmato un contratto fast track che prevede la programmazione di progettazione, approvvigionamenti e costruzione in tempi praticamente sovrapposti: com’è facile immaginare, è un casino incredibile, o almeno per noi lo è stato. In particolare, gli importi tiratissimi disponibili per la progettazione hanno fatto sì che si sia tagliato sul numero di architetti e ingegneri dedicati al progetto e quindi in alcuni momenti ciaone proprio, tanto per spiegarlo in termini tecnici. Il livello di stress è sempre abbastanza elevato e il rischio di errore dietro l’angolo.
Tornando alle giornate tipo, diciamo che, semplificando, al momento posso dire di averne due: giornata d’ufficio versus giornata di cantiere.
IN CANTIERE
Non vado molto spesso in cantiere – difficilmente più di una volta alla settimana – perché alcuni colleghi hanno il compito di seguirlo direttamente sul campo e quindi le mie visite seguono l’inizio di particolari lavorazioni oppure sono di verifica periodica o di chiarimento di aspetti più propriamente progettuali rimasti eventualmente irrisolti.
All’apparenza in cantiere si perde sempre una montagna di tempo correndo dietro alle domande dell’uno o dell’altro subappaltatore o dei colleghi che ogni tanto si perdono dei passaggi progettuali. In realtà questo tempo “perso” spesso ti salva da errori madornali.
In questa commessa mi sono state risparmiate le riunioni di cantiere che in genere sono un bel ring di prova.
Al momento siamo alla fase snagging list per il primo edificio, ossia quell’elenco di lavorazioni da portare a termine in vista del collaudo, un attimo prima di vedere la luce in fondo al tunnel. Il secondo edificio e altre lavorazioni sono invece più indietro e siamo ovviamente in ritardo, per colpe sia nostre sia non imputabili a noi: comunque entro un massimo di tre mesi il cantiere dovrebbe volgere al termine e per me sarà finalmente il momento di cambiare progetto. Oppure lavoro.
IN UFFICIO
C’è molto di più da dire sulla mia giornata tipo in ufficio. Sì, dico ufficio e non studio perché non si può definire un vero e proprio studio di architettura, quindi va così.
Che cosa faccio quando sono in ufficio? Disegno, ricerco per trovare la giusta soluzione, verifico quantità, partecipo a riunioni di coordinamento, poi più che altro passo un sacco di tempo al telefono e a leggere e scrivere email: faccio girare le informazioni, insomma, che sembra una cazzata ma è un’attività fondamentale. In un certo senso metto gli altri nelle condizioni di lavorare nella giusta direzione in vista dell’obiettivo comune.
Disegnare sì/no
Disegno, quindi. Sì, mi avevano raccontato che il mio compito era quello di coordinare la progettazione civile – senza nella pratica occuparmi di disegnare – e poi di interfacciarmi con chi si occupa delle altre discipline (strutture, impianti) e di interagire con il Cliente, con gli Enti coinvolti e con fornitori, subappaltatori ed altri eventuali progettisti. La verità è che – per il già citato discorso relativo a quanto poco viene valutata oggi la progettazione e quindi quante poche persone vengono destinate full time ad una commessa – il più delle volte non ho proprio nessuno da coordinare se non me stessa, e quindi certo che mi tocca pure disegnare, altrimenti chi lo fa?
Sembra che io lo dica con un accento negativo, ed in effetti è così. Primo perché dopo un tot di anni vorresti che qualcuno si spaccasse la testa al posto tuo sulla risoluzione di problemi progettuali e sulla loro resa grafica, e secondo perché progettare è un’attività impegnativa – del tutto sottovalutata – alla quale è necessario dedicare moltissimo tempo, tempo che non hai se devi occuparti anche di altri aspetti della realizzazione di un progetto, in particolare in casi di contratti fast track come quello di cui vi sto parlando.
Fra l’altro questa particolare commessa è una delle poche delle quali siamo progettisti in toto perché di solito noi ci occupiamo solo della progettazione esecutiva-costruttiva di progetti che qualche studio di quelli fighetti (detto con affetto, s’intende) ha immaginato ad un livello di sviluppo preliminare-definitivo.
Il Cliente
È quello che ha sempre ragione e che se non ci fosse bisognerebbe inventarlo perché senza di lui non lavoreremmo.
Le comunicazioni con il Cliente, le riunioni dal vivo e gli eventuali sopralluoghi negli showroom sono un’altra delle attività che mi spettano, in genere in accordo con il project manager.
Non si tratta praticamente mai dei committenti illuminati del Rinascimento che si affidano all’architetto dandogli carta bianca: la difficoltà è quella di mediare decisioni che spesso non condividiamo e lottare contro un senso estetico che può cozzare con il nostro. A volte si vince, a volte si perde: ma siccome è lui quello che paga e che deve “abitare” l’edificio, questo ci deve andare bene.
In questo caso specifico, nonostante la fase avanzata di cantiere, ci sono ancora delle decisioni relative alle finiture che il Cliente deve prendere. Un po’ perché l’evoluzione di questo progetto è stata pensata così, un po’ perché il cliente non si decide o cambia ripetutamente idea, un po’ perché siamo pure in ritardo noi (certo, mica è sempre colpa degli altri).
Spesso per arrivare ad una decisione passano mesi, e questa cosa ha delle implicazioni a catena di cui è difficile rendervi un’idea.
Gli Enti
Ovviamente per costruire è necessario richiedere dei permessi tramite i quali viene illustrato il progetto a chi di dovere e viene dimostrato che si agirà nel rispetto delle innumerevoli normative che compongono la burocrazia italiana.
Per fortuna le maggiori rotture con gli Enti ce le siamo già smazzati da tempo: in questo caso abbiamo seguito una SUAP che ha coinvolto una conferenza di servizi e un lungo iter procedurale fra vari Enti (Provincia, Parchi, Soprintendenza, sottoservizi vari, Arpa, etc.) a partire dal Comune in cui è sito il cantiere. Al termine di questo iter è stata emessa una Convenzione firmata dal nostro Cliente e dal Comune, valida come titolo edilizio.
Durante un cantiere è matematico che sopraggiunga qualche variante richiesta dal Cliente – che spesso usa gli edifici in costruzione come modelli 1:1 sui quali farsi venire nuove idee bizzarre – e capita inevitabilmente di dover provvedere a ravvedimenti – spesso onerosi – con il Comune interessato.
Poi vi butto lì Catasto, Città Metropolitana (in questo caso per le urbanizzazioni), SCIE non chimiche ma produttive per l’avvio delle nuove attività: non sarò mai abbastanza grata del fatto che al momento non me ne sto occupando io direttamente perché se c’è una cosa che ammazza la fantasia sono le pratiche amministrative.
Fornitori/Subappaltatori/Altri progettisti
È facile immaginare che per studiare a livello esecutivo e poi costruttivo una soluzione progettuale sia fondamentale interfacciarsi con i fornitori dei materiali, con gli artigiani e con altri eventuali progettisti.
Ultimamente, per farvi un esempio, ho a che fare con tecnici e commerciali di aziende di gres, di pareti vetrate, di arredi e di controsoffitti fonoassorbenti; poi con artigiani che dovranno realizzare alcune particolari lavorazioni – cartongessisti, falegnami, carpentieri; e, ancora, con altri professionisti (architetti, ingegneri) che sviluppano parti di progettazione specifica – ora, ad esempio, interagisco con degli illuminotecnici.
Anche questo fa parte del mio lavoro: questi tecnici ne sanno molto più di me nel loro campo specifico e a me spetta mettere insieme tutte le informazioni per fare sì che ogni tassello vada al proprio posto per arrivare ad un prodotto finale che funzioni e che sia coerente in tutte le scelte progettuali.
Perché il lavoro dell’architetto alla fine è questo: mettere le proprie competenze al servizio di un progetto di cui dovrà seguire l’intero iter realizzativo, partendo da un’idea iniziale e attraverso tutti i passaggi creativi, tecnici, amministrativi, burocratici, economici e pratici fino alla realizzazione finale.
Il suo compito è far sì che si arrivi alla fine nei tempi previsti (si spera), nel rispetto del budget (dio ce ne scampi) e con un risultato funzionale ed estetico che sia quello che si era prefissato in accordo con il Cliente.
L’iter progettuale consiste prevalentemente nella risoluzione di problemi che l’architetto deve seguire personalmente coordinando gli altri attori coinvolti perché alla fine si arrivi a quel momento in cui tutti vissero felici e contenti.
Mentre scrivo queste ultime frasi, mi rendo conto di quanto io sia ormai focalizzata più sugli aspetti pratici straight to the point e di come mi sia in qualche modo astratta dalle speculazioni poetico-filosofiche relative all’importanza del nostro lavoro di architetti ed architette in relazione agli spazi che le persone ogni giorno vivono, a partire dagli interni delle proprie case e attraverso gli edifici pubblici, le stazioni ferroviarie, i negozi, i ristoranti, fino agli spazi della città che le circondano: se sono così è perché qualcuno li ha pensati e progettati (e se questo qualcuno abbia fatto o meno un buon lavoro, potete giudicarlo voi). Mi sembra giusto che io ve lo ricordi, visto che mi sono proposta di spiegare questo lavoro anche a chi magari non ne sa niente.
Io nel frattempo credo di essere arrivata alla fine di questo lungo post. Se avete letto fino a qui le divagazioni sul mio lavoro vi ringrazio e spero di aver reso l’idea: e domani mattina, quando uscirò di casa per andare in ufficio, sarò felice di pensare che c’è qualcuno in più che sa com’è che passo le mie lunghe giornate lavorative.
Se hai qualcosa da raccontarmi sulla tua vita da architetta o da architetto, scrivimi!
Il termine “architetta” e’ al quanto ridicolo e poco onorevole… bell’articolo.
Buongiorno Andrea,
Sul termine architetta la penso diversamente, se ti va di approfondire ti rimando a questo articolo: http://archinoia.com/architetta-non-vi-piace-ok-parliamone/
E spero che “bell’articolo” non sia un commento ironico, quindi ti ringrazio 🙂
Marta
Bellissimo blog, leggero e sorprendente. Leggero no significa superficiale ma appassionante senza frantumare i maroni, senza polemiche, interessante frizzante, insomma mi sto leggendo proprio tutto ! Ti capisco benissimo, io mi occupo di Comunicazione aziendale verso gli studi di architettura, quindi lascio il professionista tempo di creare e progettare e mi accollo il lavoro della ricerca dei materiali, campionature, consegne in cantiere ecc ecc
Sono entrambi lavori massacranti ma la coesione fa la forza, il team è risultato vincente.
Il mio ruolo è relativamente nuovo, ma mi appassiona e spesso faccio fatica a spiegare cosa faccio.
Buon lavoro cara Archiannoiata
Ciao Sandra!
Grazie mille per questo commento: ho apprezzato moltissimo la definizione “appassionante ma senza franturare i maroni” (!!!!), era proprio il mio obiettivo 😛
Mi interessa molto saperne di più di questo nuovo ruolo di cui ti stai occupando. Ti contatto in privato 😉